In questa estate calda e un po’ pazza dove sta succedendo di tutto, assistiamo a numerosi episodi di violenza e altrettanti incidenti stradali. Tra gli ultimi, di cui si sta ancora parlando per la gravità, si annovera il pestaggio di Crotone in cui Davide, ventenne in vacanza con la famiglia, forse scambiato per un altro, è stato picchiato da un suo coetaneo con una tale violenza da essere ricoverato in stato comatoso all’ospedale di Catanzaro.
Il secondo caso è avvenuto in provincia di Pordenone dove una soldatessa americana di vent’anni tra sabato e domenica 21 agosto ha investito un ragazzo di 15 anni, uccidendolo. Sottoposta all’alcol test, il suo tasso alcolemico era risultato oltre il limite consentito. Ora la madre del giovane e i famigliari chiedono giustizia e soprattutto chiedono che la ragazza venga giudicata da un Tribunale italiano. Ma, secondo la Convenzione di Londra del 1951, i militari Nato in Europa vengono giudicati negli Usa.
I mass media nazionali riportano che la giovane americana, al momento agli arresti domiciliari, è dispiaciuta e sta scusandosi per quanto successo.
Scusarsi? O chiedere perdono? La differenza è sostanziale. Come ci si può scusare perché incoscientemente ci si è messi alla guida ubriachi consapevoli del rischio di incidenti per sé e per gli altri?
Ci si scusa per qualcosa capitato per distrazione o noncuranza. Ci si scusa se inavvertitamente si pesta un piede a qualcuno, se si sbatte la porta mentre altri stanno entrando, se non ci si è accorti di un anziano rimasto in piedi sul tram. Per fatti gravi, soprattutto se causati da comportamenti inadeguati, si deve chiedere perdono, alla vittima che ha subito il danno, o nel caso peggiore, alla famiglia per il dolore causatole. Chiedere perdono vuol dire assumersi la responsabilità del gesto, comprendere e far proprio il dolore altrui, compartecipando. Il perdono deve essere accolto dalla vittima o dai famigliari e solo in questo modo trova reciprocità. Sono due facce di un’unica, anche se diversa, sofferenza: il senso di colpa che emerge e il dolore di uno strappo che lacera dal di dentro. Chiedere perdono significa comprendere appieno ciò che si è fatto e mettersi dalla parte dell’altro per risollevarsi insieme. Deve essere molto difficile chiedere perdono. In pochi lo fanno con le giuste modalità e con i diretti interessati.
Nella maggior parte dei casi si parla di scuse e ci si limita a farle avere attraverso i social o telefonicamente, rimanendo una voce senza volto.
“La ragazza si è scusata per aver causato la morte”… Così riportano i giornali e quasi mai ci si sofferma sulla parola stessa priva di sensibilità che rimane in superficie. Chiedere scusa per aver causato la morte o un danno permanente è solo una formalità e non penetra in quella sofferenza causata da atti di incoscienza o superficialità.
Sembra più facile che siano le vittime o i famigliari delle stesse a concedere il perdono piuttosto che “i carnefici” a chiederlo, come dimostra il libro La crepa e la luce, edito da Mondadori di Gemma Milite Calabresi. In questo caso la vedova del commissario Calabresi racconta come nell’arco di questi cinquant’anni sia riuscita, attraverso un percorso doloroso, a perdonare chi quel 17 maggio del 1972 le uccise il marito e padre di due figli piccoli.
Non chiederà né scuse né perdono il marocchino che la mattina di Ferragosto a Barzanò alla guida della sua Renault Mégane ha prima tamponato una Fiat 500 e poi fatto ribaltare una Yaris provocando ferite al conducente per poi schiantarsi contro la Harley Davidson. Alla guida della moto c’era Riccardo, meratese classe 1977, rimasto incastrato nelle lamiere contorte. Riccardo, che fa l’elettricista ed è mancino, è stato operato d’urgenza e ha subito l’amputazione della gamba e del braccio sinistri, mentre il marocchino in questione, senza fissa dimora, si è dato alla fuga.
In attesa che che la giustizia faccia il suo corso, il pensiero va a Riccardo che, aiutato dai suoi cari, deve trovare la forza per riprendere in mano la sua vita di sempre. Con la vicinanza di tutti noi.
S.F.